L’incipit della nostra Carta fa del lavoro il fondamento della Repubblica: il lavoro non è una merce ma un “Valore”, il dato costitutivo della dignità della persona.
Nelle attività e nelle riflessioni del gruppo di tirocinanti ed operatori del Martin Pescatore, nella riunione del venerdì nello specifico, il tema del lavoro è spesso oggetto del nostro dialogo. Con questo primo articolo, incentrato sul tema dei contratti a chiamata, iniziamo a rivolgere lo sguardo alla tante forme di lavoro “flessibile” presenti nella nostra complessa società, per toccare con mano quanto i principi sopra enunciati siano effettivamente rispettati e sentiti ancora attuali.
Contratti a chiamata: a chi convengono?
Comparse teatrali, addetti alla ristorazione o hostess allo stadio: quali sono i profili che più fanno ricorso al lavoro intermittente? Tali forme di contratto, introdotte nel 2003, prevedono che il lavoratore si metta a disposizione del datore di lavoro, che ne può utilizzare la prestazione in modo discontinuo, senza offrire garanzie sul fatto che il lavoratore sarà chiamato realmente. Sin da allora sono sempre state considerate come sinonimo di sfruttamento. Può firmare questa tipologia di contratto solo un lavoratore che abbia meno di 24 anni di età oppure più di 55. Perché questo limite?
Probabilmente è un tentativo di offrire una “parvenza di tutela” all’ interno di un rapporto che sarà comunque sbilanciato. Il contratto può essere sia a tempo indeterminato, che a tempo determinato, prevede un limite massimo di 400 giorni lavorati nell’ arco di tre anni solari. In caso di superamento di questo limite, il contratto è trasformato in rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Ma attenzione: anche nella forma a tempo indeterminato, che pur si si inquadra formalmente in un rapporto di lavoro di tipo subordinato, si resta molto lontani dall’ idea tradizionale di “posto fisso” e delle sue tutele.
Ma questo sarà l’argomento di un prossimo approfondimento a cui vi rimandiamo.